Il fine settimana è come una coltellata lenta e costante nello stomaco: devo giostrare i miei malumori e malinconie, respirare con calma, sviare alcune domande, amoreggiare, dialogare e, soprattutto, condividere.
Condividere-condividere-condividere-condividere.
Esageratamente condividere.
Quando c’è questa condivisione mi sveglio sempre con il cuore in gola e, votata all’oppressione, cerco di controllarmi nascondendomi in bagno e facendo cadere 10 gocce di fiori di Rescue Remedy sotto la lingua come la migliore delle esperte del sub-linguale. La scena sarebbe comica, se non fosse per il mio reale stato d’animo che sfiora il tragico: io che reclino la testa, apro la bocca come un uccellino in attesa del vermetto da mamma uccella, alzo la lingua, poi giù a sbattere la boccettina di vetro per dieci colpi con la mano un po’ tremante e, infine, riempirmi di quel sapore dolce-amaro che si diffonde fino al naso, facendomi lacrimare per qualche secondo.
Una volta ripreso possesso di me, mi immergo rassegnata e attenta nel sabato e nella domenica, fiduciosa che, comunque vada, il lunedì, in fondo, è a portata di mano.
Siamo andati dai genitori del carceriere, perché la mamma non stava molto bene. Paradossalmente io adoro quella donna: è vecchia e genuina, ha le mani così nodose che quando mi accarezza, sembra che la sua mano mi trapassi le guance ma, nonostante la rudezza che provo sulla mia pelle, sento profondo l’affetto materno e, se potessi scegliere cosa fare del mio giorno, me ne rimarrei accanto a lei fino all’inoltrato tramonto, come una figlia assetata d’essere figlia. Quando la guardo, quando l’ascolto, mi rendo conto brutalmente di aver amato il carceriere grazie (o a causa) a lei. Nel getto dell’inconscio, in lui scorgevo lei. Vorrei dirle tutto il mio malessere come se fosse un’amica, una zia ma non capirebbe: è di un’altra mentalità, una di quelle che nasce in una casa contadina, che premia il lavoro manuale e disapprova i difficili percorsi emozionali e d’intelletto. Forse non capirebbe nessuno, perché apparentemente non mi manca nulla: sì, ho tutto. Credono e dicono, spettegolando. In realtà mi manca la libertà di scelta che, purtroppo, non è plateale bensì subdola e strisciante, fatta di paure e di astuti ricatti psicologici e fisici. Capirebbe mia suocera se le dicessi che sono la schiava di suo figlio, di quel figlio che ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefisso e che le aveva promesso, rendendola non orgogliosa ma orgogliosissima? Magari una schiava dei tempi moderni, per nulla vistosa nel suo ruolo, ma sempre una schiava. Lo capirebbe? Forse è meglio di no, forse va bene così, forse lei è bella così, con i suoi pensieri semplici ma vigorosi, resistenti a tutte le tempeste della vita, senza cedere mai nel minimo dubbio o nella blanda ma spregiudicata incertezza verso suo figlio.
E’ con questo pensiero assillante che ho passato il sabato e la domenica, mi ci sono rintanata dentro e non ne sono più uscita, quasi protetta da tutte le domande che mi nascevano e alle quali, con volontà bieca, non ho voluto dare risposta.
Poi, all’improvviso, guardando il mio carceriere giocare col suo nipotino di 3 anni, mi sono resa conto di quanta confusione regni nella mia testa, di quanto trasporto io provi, nonostante tutto, per il mio compagno: lui era lì, dolce e delicato, paterno ed affettuoso, paziente e forte mentre io ero al di qua del cancello a ricambiare i suoi sguardi e i suoi sorrisi attenti, col desiderio, oramai quasi sconosciuto, di abbracciarlo e di stringermi a lui forte, forte, fino a perdermi nell’emozione delle sue braccia, ma poi ho ricordato di quanto, a volte, i suoi abbracci siano violenti e dolorosi e di quanto amino vedermi dibattere come un pesce fuori dall’acqua fino a sussurrare, oramai priva di forze, pietà. Troppe volte gli ho chiesto pietà e so che dovrò chiederglielo ancora chissà quante altre volte e, questo, mi spaventa, mi crea un senso di ribellione e ribrezzo dentro lo stomaco, una sorta di rabbia contro me stessa e contro di lui, un vigoroso senso di nausea che mi spossa e mi trascina in un baratro corposo e tattile.
Vorrei virare a destra o a sinistra, lontana da lui, ma mi ritrovo sempre nel sua traiettoria e impazzisco. Impazzisco sul serio, senz’aria, nella mia impotenza del presente.
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