domenica 14 ottobre 2007
venerdì 24 agosto 2007
Nel quadro di Munch
E’ terribile il sapore del metallo in bocca che sembra trapassarmi da parte a parte come se fossi una stupida forma di burro. Il panico mi fa questo, mi riempie la bocca di metallo, mi blocca la saliva giù in gola, mi toglie il sangue dalle vene facendomi sentire un freddo indescrivibile che va oltre il freddo, poi un bollore al viso che sembra venire direttamente dall’inferno di Dante, la voglia di urlare da trattenere dentro, chiusa a duplice mandata, a ogni costo per non peggiorare la situazione e, infine, un unico desiderio: che tutto passi il più in fretta possibile. “Passa, ora passa” penso, cercando di affacciare i miei pensieri alle cose belle ma mi rendo conto, tragicamente, che non dipende più da me.
Ecco, ora sono qui, seduta avanti al computer con le gambe molli e con una tazza di camomilla bollente da bere lentamente per ricomporre circolazione e testa distrutte da quei momenti terribili. Lo stomaco trema e lo fa per ricordarmi che ho sempre meno tempo, perché non reggo più.
Ieri ero felice ed euforica sull’autobus, seduta dietro, come ai tempi delle gite scolastiche ricordando i giochi, i canti, gli scherzi e oggi sono qui, con una debolezza psicologica molto penetrante, quasi irreversibile che mi fa sentire un criceto senza scampo con le sbarre avanti e dietro, destra e sinistra. Vorrei spaccare tutto, tutto quello che mi capita tra le mani, vorrei ficcarmi nel quadro di Munch e prendere il suo posto, consigliando all’artista, oramai divenuto anima vagante, di non dipingere lo steccato affinché io non debba scavalcare nulla per riprendermi un sorriso o per scappare.
mercoledì 22 agosto 2007
Condivisione 0 (a proposito di condivisione)
Quando mi sono trasferita in questa città ho lasciato tutte le mie bellissime amicizie giù, nel bel Sud e qui ho imparato a frequentare gli amici del carceriere. Sono persone alla Briatore, fatte di una buona dose di superficialità, di apparenza, di supponenza e di moneta da sfoggiare a ogni costo per sentirsi realizzate. Dagospia li definirebbe amici cafonal-trash. Io li definisco degni simpatizzanti del carceriere. Purtroppo, solo oggi, risvegliata dal mio torpore sentimentale, vedo tutto questo. Prima tutto ciò che lo circondava e tutto ciò che egli era, rasentava la perfezione.
Più probabilmente, però, ero io a ritenermi talmente imperfetta interiormente, da vedere perfetto tutto quello che non avesse a che fare con me. Ora sono cresciuta, ho preso consapevolezza di me anche grazie a questa convivenza diventata forzata e mi rendo conto di valere, di essere, di poter cambiare tutto quello che non mi fa stare bene. Devo solo capire come. Ho l’arma della lentezza e della pazienza da dover affilare, perché se volessi fare le cose di fretta mi ritroverei a faccia in giù in chissà quale angolo di mondo, senza arte né parte.
Ho deciso che devo girare, devo sconfinare dalla mia città nelle ore in cui sono sola ma non posso farlo con la mia auto, perché so che c’è un contachilometri che mi spia; quindi ieri sono andata a comprarmi dieci biglietti dell’autobus e mi muoverò con quello per almeno
martedì 21 agosto 2007
Avere un blog
Avere un blog è una sensazione liberatoria, un po’ come lavare i propri panni sporchi nella fontana della piazza e fregarsene di chi ti guarda come nel vincolo della sommossa dove ogni prospettiva cambia coordinate e dove essere osservati/e è un nutrimento indispensabile per continuare.
lunedì 20 agosto 2007
Condividere
Il fine settimana è come una coltellata lenta e costante nello stomaco: devo giostrare i miei malumori e malinconie, respirare con calma, sviare alcune domande, amoreggiare, dialogare e, soprattutto, condividere.
Condividere-condividere-condividere-condividere.
Esageratamente condividere.
Quando c’è questa condivisione mi sveglio sempre con il cuore in gola e, votata all’oppressione, cerco di controllarmi nascondendomi in bagno e facendo cadere 10 gocce di fiori di Rescue Remedy sotto la lingua come la migliore delle esperte del sub-linguale. La scena sarebbe comica, se non fosse per il mio reale stato d’animo che sfiora il tragico: io che reclino la testa, apro la bocca come un uccellino in attesa del vermetto da mamma uccella, alzo la lingua, poi giù a sbattere la boccettina di vetro per dieci colpi con la mano un po’ tremante e, infine, riempirmi di quel sapore dolce-amaro che si diffonde fino al naso, facendomi lacrimare per qualche secondo.
Una volta ripreso possesso di me, mi immergo rassegnata e attenta nel sabato e nella domenica, fiduciosa che, comunque vada, il lunedì, in fondo, è a portata di mano.
Siamo andati dai genitori del carceriere, perché la mamma non stava molto bene. Paradossalmente io adoro quella donna: è vecchia e genuina, ha le mani così nodose che quando mi accarezza, sembra che la sua mano mi trapassi le guance ma, nonostante la rudezza che provo sulla mia pelle, sento profondo l’affetto materno e, se potessi scegliere cosa fare del mio giorno, me ne rimarrei accanto a lei fino all’inoltrato tramonto, come una figlia assetata d’essere figlia. Quando la guardo, quando l’ascolto, mi rendo conto brutalmente di aver amato il carceriere grazie (o a causa) a lei. Nel getto dell’inconscio, in lui scorgevo lei. Vorrei dirle tutto il mio malessere come se fosse un’amica, una zia ma non capirebbe: è di un’altra mentalità, una di quelle che nasce in una casa contadina, che premia il lavoro manuale e disapprova i difficili percorsi emozionali e d’intelletto. Forse non capirebbe nessuno, perché apparentemente non mi manca nulla: sì, ho tutto. Credono e dicono, spettegolando. In realtà mi manca la libertà di scelta che, purtroppo, non è plateale bensì subdola e strisciante, fatta di paure e di astuti ricatti psicologici e fisici. Capirebbe mia suocera se le dicessi che sono la schiava di suo figlio, di quel figlio che ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefisso e che le aveva promesso, rendendola non orgogliosa ma orgogliosissima? Magari una schiava dei tempi moderni, per nulla vistosa nel suo ruolo, ma sempre una schiava. Lo capirebbe? Forse è meglio di no, forse va bene così, forse lei è bella così, con i suoi pensieri semplici ma vigorosi, resistenti a tutte le tempeste della vita, senza cedere mai nel minimo dubbio o nella blanda ma spregiudicata incertezza verso suo figlio.
E’ con questo pensiero assillante che ho passato il sabato e la domenica, mi ci sono rintanata dentro e non ne sono più uscita, quasi protetta da tutte le domande che mi nascevano e alle quali, con volontà bieca, non ho voluto dare risposta.
Poi, all’improvviso, guardando il mio carceriere giocare col suo nipotino di 3 anni, mi sono resa conto di quanta confusione regni nella mia testa, di quanto trasporto io provi, nonostante tutto, per il mio compagno: lui era lì, dolce e delicato, paterno ed affettuoso, paziente e forte mentre io ero al di qua del cancello a ricambiare i suoi sguardi e i suoi sorrisi attenti, col desiderio, oramai quasi sconosciuto, di abbracciarlo e di stringermi a lui forte, forte, fino a perdermi nell’emozione delle sue braccia, ma poi ho ricordato di quanto, a volte, i suoi abbracci siano violenti e dolorosi e di quanto amino vedermi dibattere come un pesce fuori dall’acqua fino a sussurrare, oramai priva di forze, pietà. Troppe volte gli ho chiesto pietà e so che dovrò chiederglielo ancora chissà quante altre volte e, questo, mi spaventa, mi crea un senso di ribellione e ribrezzo dentro lo stomaco, una sorta di rabbia contro me stessa e contro di lui, un vigoroso senso di nausea che mi spossa e mi trascina in un baratro corposo e tattile.
Vorrei virare a destra o a sinistra, lontana da lui, ma mi ritrovo sempre nel sua traiettoria e impazzisco. Impazzisco sul serio, senz’aria, nella mia impotenza del presente.
venerdì 17 agosto 2007
In riva al fiume
Ieri sera mi sono guardata allo specchio e mi sono vista pallida e smagrita, nonostante il mare vissuto da poco, nonostante due settimane di pieno riposo. Mi sento stanca dentro, mi sento divorata dal compromesso, incapace di prendere una decisione chiara e coraggiosa a quasi 30 anni. Vorrei averne 10 di meno per poter giustificare la mia situazione. Invece no, ne ho 29 e, tra le mie mani, ho solo un blando e codardo progetto di fuga. A dire il vero non potrei fare altro, perché il mio carceriere sembra essere un discendente di Robespierre e della sua politica del terrore e se io sfoderassi il mio coraggio sfacciato mi farebbe fare la fine della valorosa Olympe de Gouges. Ci scommetterei qualunque cosa e vincerei.
Io, però, non voglio morire per la libertà e per i miei diritti. No, io voglio vivermi la libertà. Io voglio conquistare nuovamente ogni pezzettino della mia essenza, senza sguainare armi, anche perché non ho armi o armature da indossare.
Ho spalancato tutte le finestre: oggi, qui, non si respira. E’ afa pura. La pelle sembra ungersi, al minimo movimento; respiro come se avessi la testa dentro un sacchetto di plastica, le palpebre sono così pesanti da far sembrare un sasso leggero come una farfalla. Bevo succhi di frutta e acqua con la pigrizia di chi non ha voglia di fare nulla e mi immagino d’essere tra le rive di qualche fiume, con i piedi dentro l’acqua che corre via e la testa tra l’erba a guardare le nuvole che si muovono, formando forme splendide, in onore della mia fantasia. Vorrei essere lì per prendere il terriccio tra le dita e sentirne l’odore forte e verace. Desidererei starmene lì tutto il giorno e tutta la notte, senza paure, senza l’ansia dei rumori e dei silenzi, senza l’angoscia del presente e l’inaffidabilità del futuro. Bramerei essere mia, lì e così, senza trucchi, senza maschere, senza sorrisi sforzati, padrona di niente e di tutto, dei miei respiri e dei miei sonni, della mia fame e della mia inappetenza, della mia sessualità e della mia frigidità. Vorrei essere, in riva a quel fiume, come mi capita d’essere e se mi capita d’essere: buona e cattiva, pulita e macchiata, zuccherata e salata, nera e bianca, senza bisogno di vie di mezzo e di giustificazioni.
giovedì 16 agosto 2007
Il progetto
Per illudermi che la mia fuga fosse prossima, tempo fa comprai una valigia rosa, di grandezza medio-piccola e la nascosi dietro il piccolo armadio dello sgabuzzino. Saperla lì è come è come avere un piede fuori dalla porta di casa. Stanotte, però, pensavo che sarebbe ora di incominciare a riempirla, magari un po’ alla volta, un indumento al giorno o alla settimana e stabilire la grande regola: quando sarà piena fino all’orlo scappare, finalmente. Per dove? Non ne ho la più pallida idea, ma una fuga non ha bisogno sempre di grandi distanze, a volte bastano cento metri per sentirsi realizzati, altre non ne bastano miliardi. Il capo del mondo è sempre più vicino di quanto si pensi e, per me, potrebbe essere il piano di sotto o quello di sopra.
Mi sono destata con questi pensieri, stamattina. Ho aperto gli occhi con una sottile euforia che dava al mio cuore un battito più vitale; il buio della camera da letto mi sembrava inondato di un bellissimo sole e non mi è importato di scorgere nuvole all’orizzonte, perché, per me, il sole rimarrà tutto il giorno, fino a stasera, fino a che non tornerà a casa il carceriere.
Sto diventando anche furba: salvo su CD ogni cosa che scrivo e ho imparato a togliere cookie, file temporanei e cronologia, così i miei passaggi in internet rimarranno sconosciuti. La parte della stupida la recito bene e, a questo punto, mi conviene farlo, perché i fuggitivi hanno la possibilità di diventare tali solo mostrando stupidità apparente.
Faccio finta che tutto va bene, che sono serena, che mi piace ogni cosa; fingo di non ascoltare e di non capire, sorrido e mi sottometto con naturalezza e ci riesco grazie al mio grande progetto, alla mia importante meta. Conto i giorni, pur sapendo che, probabilmente, ci vorranno mesi e più di dodici. Nel frattempo ho necessità di trovare un lavoro, uno qualsiasi e una stanzetta per me, ma non so da che parte incominciare, visto che qui mi conoscono tutti. Credo che, a questo punto, ci sia bisogno di un alleato. Esistono negozi che affittano o vendono alleati? Me lo chiedo ridendo. Me lo chiedo visualizzando la scena di me in un negozio di esseri umani a cercare l’alleato migliore e minor prezzo, visto che devo fare economia per la mia evasione e non posso permettermi spese extra. Dovrei fare leva sul mio carattere partenopeo, abituato nei secoli dei secoli, a trattare e a giocar d’astuzia sulle trattazioni economiche nei più grandi e confusi mercati della storia. Sì, a immaginarmi così, non posso che ridere ed essere felice di questa risata che nasce inaspettata.